di Federica Riva
Perché i tentativi di avvicinare i bibliotecari italiani alla comunità internazionale hanno incontrato sino ad oggi difficoltà tali da arrivare a scoraggiare chi li ha proposti?
Perché dopo tanti anni di impegno la comunità professionale non ne ha tratto vantaggio e una maggiore coesione?
Al caucus dei bibliotecari italiani presenti al convegno IFLA (Lyon, Francia, 16-22 agosto 2014) mi sono resa conto che, per quanto riguarda la ricaduta dei convegni internazionali in Italia, AIB e IAML-Italia, hanno condiviso un’esperienza molto simile procedendo parallelamente: AIB ha ospitato a Milano (2009) il primo monumentale convegno IFLA tenutosi in Italia; il gruppo italiano dell’International Association of Music Libraries, Archives and Documentation Centre (IAML) ha ospitato l’assai più ristretto convegno internazionale di circa 300 bibliotecari musicali, ma per ben tre volte: a Como (1984), a Perugia (1996) e a Napoli (2008); non contenti, ci riproveremo una quarta volta a luglio 2016, grazie alla ospitalità offerta a Roma dalla Bibliomediateca dall’Accademia Nazionale di S. Cecilia, diretta da Annalisa Bini.
Durante il caucus lionese si è recepito forte il bisogno di comprendere per quali motivi l’impegno in IFLA di alcuni bibliotecari italiani stenti a inoculare in altri il virus dell’interesse per come si evolvono la professione e i suoi contenuti a livello internazionale. Lo stesso possiamo dire relativamente ai bibliotecari musicali: per almeno tre decenni l’Italia è stata rappresentata a livello internazionale sempre dalle stesse tre – quattro persone e solo assai di recente il gruppo si è andato ampliando.
Questa difficoltà a ‘legare’ con l’ambiente internazionale ha il paradossale effetto di far sentire isolati in Italia quanti sono in contatto frequente con il resto del mondo. Aggiungo il mio cent alla discussione proponendo due riflessioni: la prima è frutto di una chiacchierata con un collega che lavora in ambito universitario (e che, come me, frequenta i convegni IFLA a proprie spese) svoltasi a Torino a conclusione del satellite meeting, quando ci siamo casualmente incontrati a cena nello stesso ristorante. L’altra è una mia successiva sintesi.
La prima riflessione parte da un’osservazione sulla discussione cha ha caratterizzato a Torino la relazione di Patricia Montiel-Overall, Dovendo commentare le slides di un relatore assente e presentare le proprie, Patricia ha ‘deragliato’ dall’usuale, avviando una discussione tra tutti i presenti per identificare cosa distingua, secondo loro, un bibliotecario da un data curator.
L’osservazione del collega a cena era che nella discussione del mattino, nessuno fece cenno alle qualità umane che possono dirsi in stretta relazione con la professione del bibliotecario; qualità come la generosità: un reference librarian o si sa mettere costantemente nei panni dell’altro, cioè di coloro che chiedono la sua assistenza professionale per condurre le proprie ricerche, o difficilmente potrà mai far bene il proprio lavoro; o la costanza dei comportamenti, il cui costo ogni bibliotecario che operi anche da solo al pubblico, ha dovuto imparare sul campo, chiarendo bene a se stesso quale impegno occorra prodigare nella prassi quotidiana italiana per far rispettare i regolamenti, cioè quei paletti che segnano il limite tra l’agire professionale, il piano del servizio, dal piano del favore personale; situazione, quest’ultima, apparentemente piuttosto diffusa nelle biblioteche italiane, pur tenendo in debito conto le ampie differenze di comportamento esistenti tra regione e regione, e tra un ambiente professionale e l’altro.
La mia osservazione è che forse valorizzare pubblicamente queste attitudini della professione potrebbe facilitare nei contatti con i colleghi all’estero, la condivisione di un piano professionale, suggerendo a quanti tali comportamenti mettono in atto nella vita di tutti i giorni, di fare effettivamente parte di una comunità professionale estesa ben oltre i confini nazionali.
Il metodo di discussione promosso da Patricia Montiel-Overall – paritetico, anglosassone, e presentato da uno straniero – rivolto al pubblico italiano abituato a ben altra tradizione, ha dato quella mattina un risultato evidente, aprendo le porte alla partecipazione diretta dei singoli, che hanno superato ogni remora personale nel momento in cui hanno percepito che il focus della discussione sollecitato dal relatore era proprio il parere individuale dei presenti, il che ha consentito a colei che ha guidato la discussione, di tirare alla fine le fila di un ragionamento ricco di spunti originali.
Mi chiedo quindi se l’adozione di tale metodo di comunicazione scientifica — che punta al coinvolgimento diretto di molti individui in un gruppo in una discussione sollecitata e guidata — non possa costituire anche nell’ambito delle professioni della documentazione (bibliotecari, archivisti, curatori di musei) un elemento concreto di rinnovamento delle abitudini professionali. La sua diffusione nel paese potrebbe essere facilitata dall’esser fatta propria dalle associazioni professionali, che potrebbero affiancare questo ed altri metodi, come il caucus, alle forme tradizionali di comunicazione basate sul rapporto da uno a molti (la tradizionale“relazione” o “presentazione”) o alle tavole rotonde. Come dire, adeguiamoci a quanto il teatro ha fatto da tempo: coinvolgiamo il pubblico e diventiamo tutti attori. L’uso di una pluralità di metodi nella comunicazione professionale costituirebbe allo tempo steso un elemento concreto di internazionalizzazione dell’ambiente italiano.
Modificare le abitudini comunicative è un rinnovamento sostanziale, non è un cambiamento formale, né è una sollecitazione al rinnovamento, ruolo che spetta ai contenuti della comunicazione. E qui vengono le dolenti note: perché ad un qualche punto occorrerà anche avere il coraggio e la fortezza di trasformare la minoranza in mentalità dominante e ammettere, apertis verbis, che la passività impiegatizia è una delle caratteristiche di come la professione del bibliotecario/archivista/curatore di museo è esercitata in Italia in molti, troppi casi. Occorrerà sollecitare la responsabilità dei confronti di se stessi in quanto professionisti. Occorrerà saper riproporre obiettivi alti, che vadano oltre il mero quotidiano, ma anche indicare la strada di come perseguirli in una quotidianità difficile, ostacolante e quasi mai ripagante l’impegno professionale: basterebbe non punirlo ed avremmo già fatto un passo avanti nella selva oscura dei sindacalismi burocratizzati e della burocrazia sindacalizzata. Occorrerà diffondere un secondo virus: il dubbio che quanto si fa nel quotidiano non sia sufficiente a noi stessi e la coscienza che andare oltre il mero quotidiano è una parte sostanziale del diritto al lavoro, che sollecita la creatività individuale come un diritto di tutti e non come un lusso o un aspetto etico recepito da pochi. Occorrerà recepire – da ieri piuttosto che da oggi o da domani — la sofferenza (ormai non si può più parlare di disagio) delle generazioni successive alla propria. Occorrerà che la sollecitazione al cambiamento arrivi anche dai responsabili nelle istituzioni in maniera chiara e forte.
Non si può, infatti, chiedere ai singoli lo sforzo di difendere i valori professionali e il bene comune a costo di sacrifici personali sproporzionati rispetto alla realtà dei risultati quotidiani, perché è su questo confine che scatta in ciascuno l’italico dubbio: “chi me lo fa fare?”.