L’ intelligenza connettiva tra pelle della cultura e inconscio digitale. Note a margine dell’incontro con Derrick De Kerckhove

The web of our life is of a mingled yarn,
good and ill together”
(Shakespeare, All’s Well that Ends Well, Act IV, sc. 3)


Ricca di spunti e interessanti sollecitazioni la conferenza di De Kerckhove, nell’ambito della rassegna “
Le Piazze del Sapere” di San Giovanni Valdarno, Palazzo d’Arnolfo 8 novembre 2014. Il relatore, autore di fama internazionale, autentico guru della comunicazione contemporanea, non richiede presentazioni a un pubblico di bibliotecari e informatici, ma anche a quello più generale dei “non addetti ai lavori”. In un mondo sempre più caratterizzato da vorticosi cambiamenti, non più soltanto tecnici ma anche cognitivi, sociali e antropologici, la riflessione del professore dell’Università di Toronto (e di Napoli) partendo dagli step della maturazione della rete (dal telegrafo ai big data, passando attraverso la televisione, il web, il web semantico, Google, i social media, e il cloud computing) ha affrontato, con la consueta competenza e grande coraggio, le prospettive del futuro della conoscenza, nell’orizzonte di un’attualità fatta di spinte tecnologiche impensabili “anche solo” pochi anni or sono. L’universo digitale in costante espansione richiede competenze informative di base per discernere le informazioni “buone” da quelle “cattive” e/o inutili. Nel 2010 la quantità di informazioni trasmesse su scala mondiale superava per la prima volta uno zettabyte. Nel 2013 è stato inaugurato nello Utah un centro dati NSA in grado di immagazzinare fino a 12 exabyte di informazioni. (1 exabyte = 1000 petabyte. 1 petabyte = 1.000 terabyte). Per dare un’idea, basterebbero soltanto circa 400 terabyte per conservare tutti i libri scritti fino ad oggi in qualsiasi lingua del mondo.

Scenari densi, quindi, oltre che di grandi opportunità, di problemi e pericoli. Siamo nella società della formazione, viviamo in un’epoca dove la centralità delle “certezze” di un pensiero “forte” ha ormai lasciato il posto a una polverizzazione cognitiva e gnoseologica e anche a una precarietà lavorativa e esistenziale drammatica, senza precedenti. De Kerckhove si/ci interroga, in questo scenario, e lo fa attraverso una lezione ricca di esempi tratti dalla quotidianità fatta di automobili e telefonini, elettrodomestici e commercio elettronico, GoogleGlass e stampanti 3D. L’interrogativo è se l’approdo alla società liquida (Bauman) e a un orizzonte cognitivo fatto di segnali elettrici (dentro e fuori di noi) e della connessione 24/24 ore sia per l’uomo contemporaneo segno di una forza sostanziale oppure indice di fragilità, inconsistenza, pallore. De Kerckhove sembra suggerire, in alcuni cenni fatti anche di aneddoti e di vissuto personale, che la vita vera è offline, quando per esempio, da tecnologo e guru della comunicazione contemporanea, ribadisce l’importanza di una pedagogia incentrata sulla lettura e, attraverso la lettura (di libri di carta), sulla strutturazione di una identità individuale forte, che altrimenti i nativi digitali smarriscono tra videogames, tablet, touchscreen e devices di sensorialità terziaria (l’ultimo ritrovato è la “realtà aumentata” dei GoogleGlass). Il dilemma tra pensiero “forte” e pensiero “debole”, per il professore canadese è tutt’altro che marginale e irrilevante, in questo contesto. Oggi, a richiamare l’assoluto, e una sua presunta “necessità” sono spinte culturali reazionarie, movimenti “teocon” e fondamentalismi di varia natura (di cui l’Isis è l’ultima efferata manifestazione su scala internazionale). I nuovi contenuti digitali sono creati a un ritmo senza precedenti, ricreati, remixati da computer e dagli uomini, possono essere condivisi e distribuiti su scala mondiale in un nanosecondo, e tutto questo ha ripercussioni sul concetto di titolarità dei dati e sulla proprietà degli stessi. Il gap tra la contemporaneità, come dimensione orizzontale/sincronica del web, e la storia, come dimensione verticale/diacronica, va facendosi sempre più ampio. Lo sviluppo esponenziale e inarrestabile di archivi esterni (cloud e unità di misura enormi come i già citati exabyte, petabyte, terabite), minacciano seriamente la mneme umana, ovvero la memoria, e la capacità di memorizzare (anche come pedagogia classica). E infatti, a scongiurare questo rischio, immanente nella nostra vita di uomini del ventunesimo secolo, a tutte le latitudini (perché il discorso, lungi dall’essere valido e ristretto solo all’uomo occidentale, è valido a tutte le latitudini del pianeta) De Kerckhove non manca di sottolineare con forza (anche nel dibattito conclusivo vivace con il folto pubblico intervenuto) l’importanza e centralità di un ritorno alla paideia, in senso classico.

Come bibliotecari sensibili, optiamo pertanto per un relativismo culturale che si contrapponga e scongiuri, appunto, ogni pensiero digitale “forte”, sotteso a una cultura e a una tecnica “senza identità” e senza paideia. Come bibliotecario, e ancor prima come cittadino e persona, chi scrive è piuttosto refrattario alle scelte definitive. Perciò il discorso di De Kerckhove sul logos elettronico, l’intelligenza connettiva, e l’inconscio digitale è apparso a chi scrive pregno di senso e urgente, innanzitutto nella modulazione dell’accesso alla conoscenza diffusa, e in primis per la professione svolta nel quotidiano di una piccola biblioteca pubblica della provincia italiana. La conoscenza passa sempre più attraverso la rete come spazio fluido, e sempre meno per i libri “analogici”; essa crea nuove forme di socializzazione (social media: differenza tra Linkedin, Facebook, Twitter, YouTube) inaugurando nuova condivisione di sapere.

La nostra avventura di essere umani (viventi, pensanti, e coscienti) nasce e si organizza intorno alla pelle, prima che al cervello, o al cuore. L’”Io-pelle”, teorizzato da D. Anzieu, è un involucro assolutamente permeabile (in parallelo con una società e/o un’amministrazione pubblica trasparente, per esempio). E’ in questo metaforico “Io-pelle”, che sono contenuti gli organi vitali della conoscenza contemporanea: per chi crede, lì c’è pure l’anima. La pelle come luogo di passaggio e incontro, filtro ma anche barriera, frontiera inespugnabile o accogliente, ricettacolo di sensazioni, area del piacere/dolore ricevuto/donato, varco della realtà. In parallelo a C.G. Jung, che teorizza la memoria collettiva, De Kerckhove introduce il concetto di inconscio digitale, dove il Sapere, da prodotto della società dei consumi, si fa nuovo processo di partecipazione globale alla conoscenza. Per questo l’importanza della biblioteca pubblica come istituto della democrazia, garanzia di accesso per tutti alle informazioni, non la si richiamerà mai a sufficienza.

Ma la pelle, in natura, si trasforma, si sgretola, invecchia, muore.

Le nostre città sono piene di cartelli stradali con l’indicazione “centro”, con il simbolo di cerchi concentrici. Non ci sono simboli della periferia, o delle periferie delle città, delle metropoli. Potrebbero essere dei cerchi “dis-centrici”… Come le città, anche la rete è policentrica. Ma se non ci sono segnali stradali delle periferie, significa forse che la periferia non esiste? Piuttosto è vero il contrario -come dimostrano i recenti, drammatici episodi di Roma o Milano- E’ vero piuttosto, ahinoi, che la periferia non interessa a nessuno. La periferia, le periferie (che si chiamino banlieu, suburre, o altro, poco importa) sono (diventate) luoghi di contaminazione, di possibili infezioni. In questo contesto la violazione della privacy delle persone, dei singoli individui connessi, il controllo da parte dei governi è un rischio ogni giorno più reale, per cui occorre ed è consigliabile adottare anticorpi e strategie per rendersi invisibili in rete. I governi fanno sempre di più pressione sulle multinazionali del web, per entrare in possesso di dati, metadati e registrazioni delle attività degli individui online. E così, la fiducia delle persone, in veste di cittadini, consumatori o followers, verso il mondo online si abbassa considerevolmente, perché si sente che le nostre attività online, i nostri “movimenti” in rete sono spiati, tracciati, monitorati. In questo contesto è facile cedere a un uso difensivo della cultura, un utilizzo strumentale e poco lungimirante della cultura e della tecnica. La cultura (e la lettura, e le biblioteche) non è, e non deve essere “trincea”. Piuttosto sia esso “ponte”, per favorire l’incontro con l’imprevisto, l’ignoto, l’altro da sé. L’incontro dei libri con i lettori; di questi, con Ranganathan, con i “loro” libri, di ciascuno con il suo proprio libro. Lo stesso potrebbe valere per la tecnologia? A ciascuno il proprio device, e buon divertimento… Ma la realtà è ben più complessa e stratificata, e forse le categorie dell’illustre bibliotecario e biblioteconomo indiano non tengono più, nel 2014. Alla fine, potrebbe succedere che la rete, come le periferie delle città, diventi un luogo intimo e profondo. La rete, i grandi archivi e le memorie virtuali, vanno usate in modo proficuo e non dispersivo o, peggio, per scopi criminosi o eticamente discutibili. Sottolinea De Kerckhove che l’informazione spazzatura, la gran mole della pedo-pornografia, la cibercriminalità ecc. sono il prezzo da pagare oggi, per una rete che promuova azioni collettive positive, trasparenza commerciale e amministrativa, cittadinanza attiva e responsabilizzazione degli individui. Usare (bene) il web è dunque come osservare e vivere le periferie, è scrutare all’interno di se stessi. Un centro non immobile, un centro non ingabbiato in cerchi concentrici ma libero di interagire con essi, per venirne fuori, fino ai confini più estremi.